Voglio rinascere, storia di un'intellettuale che sogna di fare l'ironman

"Tutto ciò che è umano è estremamente complesso, assolutamente misterioso e potenzialmente in continua trasformazione". Janelle Hallman

SI SARÀ ESERCITATO COSÌ ANCHE ROBIN HOOD?

“Abbiamo fatto tirare anche un cieco, ce la farai anche tu”.
Davanti ai miei dubbi, il titolare del gruppo sportivo di tiro con l’arco in cui mi sono recata questo pomeriggio ha risposto così.
Io di tiro con l’arco non so nulla e nella mia immaginazione imbracciavano questo strumento i soldati medioevali e Robin Hood.
Di altro nella mia testa c’era poco, se non qualche sporadica immagine olimpica.
Avendo avuto l’opportunità ho deciso però di provare lo stesso.
Il bello dello sport è che ti fa fare esperienze vere e nuovi incontri.
Ogni volta imparo qualcosa.
Credevo che avrei sofferto il caldo andando a tirare a fine giugno.
Invece al campo c’è un’area riparata; la brezza mi accarezza la faccia ed è piacevole farsi sfiorare.
Siamo in mezzo al verde e l’aria aperta mi corrobora, anche se in partenza ero un po’ stanca.
Cosa ci vado a fare? – mi domandavo prima di partire.
Un’esperienza del genere non fa parte di me.
Romperò l’arco e le frecce finiranno chissà dove nel prato.

Fortunatamente il mio immaginario negativo ancora una volta sbagliava.
L’arco che mi avevano preparato per me era troppo pesante.
Riesco a scoccare solo una freccia, che finisce rigorosamente in mezzo al prato.
Così mi danno in mano un elastico.
Serve per simulare il tiro.
“Adesso fallo 300 o 400 volte” mi dice il titolare.
Si sarà esercitato così anche Robin Hood?
Comincio, affiancata dal compagno di mia sorella che ha fatto anche le gare.
Mi spiega tutto nei minimi dettagli, sapendo che se va bene ricorderò la metà di quello che ha detto.
Mi metto in posizione di tiro e mi esercito con l’elastico.
Va controllata la posizione dei piedi e delle braccia.
“I movimenti da coordinare sono solo cinque” dice lui.
Per fortuna – penso io.
Mentre simulo il tiro in me scatta qualcosa di ancestrale, un’aggressività repressa che sarebbe destinata a volare via con la freccia, se ne avessi una.
Dicono che abbiamo due cervelli, di cui uno antico, quello che ti salvava quando dovevamo fuggire dai predatori.
È questo che sento in questo momento? È lui che si tende insieme alle mie braccia?
So che c’è, ogni tanto mi rivolgo a lui, gli devo spiegare che non ci sono predatori nei paraggi.
È di questo cervello che parliamo, quando il compagno di mia sorella e io torniamo verso casa.
Lui apprezza il mio approccio alla vita, la voglia di arricchirsi buttandosi fuori dalla zona confort.
Eppure sono partita con il mal di testa.
Se fossi rimasta sul divano, arrivata a sera, cosa avrei raccontato?

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